Storie del mondo piccolo – parte 2^

Il notaio Caputo, era un uomo sulla sessantina, distinto e compito nel portamento. Durante il periodo estivo, per abitudine consolidata da anni, indossava solo vestiti di lino bianco, scarpe bicolore e un capello tipo “panama”. Il visetto ovale, un naso un tantino pronunciato, occhietti vivaci e un’espressione gioviale ne caratterizzavano la fisionomia del volto. Il fisico asciutto, di media statura e una pancetta appena pronunciata. Dal suo atteggiarsi si capiva che era una persona importante nella piccola comunità cittadina.
In gioventù aveva vissuto le sue brave avventure: memorabili erano stati gli anni dell’università in quel di Catania. Un periodo nel quale egli conciliava lo studio con il divertimento, senza, però, mai mancare ai suoi doveri universitari. Tanto da laurearsi nei tempi giusti, evitando di uscire fuori corso.
Sostenne con eguale solerzia ed abnegazione i suoi doveri verso la patria, e allo scoppio della prima guerra mondiale, con il grado di sottotenente, fu mandato al fronte. Gli altopiani del Carso, l’Isonzo, il Piave, erano quelli i luoghi che gli ricordavano le sofferenze e le atrocità di una guerra che aveva vissuto in prima persona. Congedatosi, dopo la vittoria, ritornò a casa e riprese gli studi per affrontare il concorso notarile, che superò brillantemente l’anno successivo. Adesso, non restava che scegliere la sede tra quelle vacanti. Non erano molte le possibilità: o una sede nel continente, magari in una città importante, oppure quella nella vicina Randazzo. Scelse Randazzo. E così la graziosa cittadina ebbe il suo nuovo notaio, il quale comprò casa e ivi si stabilì definitivamente.
Lo stimato professionista era anche consigliere comunale e, come era ormai sua abitudine, ogni mattina alle dodici in punto, lasciava lo studio e si recava al Municipio, per assolvere alla sua funzione politica.
Il tre luglio del 1948 era una giornata caldissima. Già di mattina presto, appena alzato, il notaio affacciandosi sul balcone, per prendere la solita boccata d’aria mattutina, si era reso conto della cappa d’afa che gravitava sul piccolo paese. Rientrò in casa infastidito, lamentandosi tra se e se, per la forte calura, che prevedeva lo avrebbe oppresso nel corso della giornata.
Completate le operazioni mattutine di igiene personale, indossò il vestito di lino che la domestica gli aveva fatto trovare ai piedi del letto. Si mise dinanzi allo specchio appeso ad una parete dell’ingresso e con cura sistemò il cappello sulla piccola testa a forma d’uovo. Poi, evitando di fare rumore per non destare la moglie e i figli, usci di casa.
Varcato l’uscio, cercò di fare il punto della situazione per capire come meglio organizzare la mattinata: dunque alle nove il primo appuntamento con il barone Vigliani, per la redazione del suo testamento, poi un atto di vendita, una cosa semplice sbrigativa e quindi alle dodici al Municipio, come d’abitudine.
Qualcosa turbava la serenità del suo essere, un pensiero fisso da giorni lo tormentava: il contenuto della delibera di consiglio comunale n. 125 del 25 giugno 1948. A suo avviso la mozione del consigliere Emmanuele non era stata votata e pertanto se il segretario comunale avesse scritto nel verbale il contrario, aveva certamente commesso un falso.
In quella seduta di consiglio comunale l’argomento scottante era l’acquisto dell’area su cui realizzare l’edificio scolastico. Si capisce che l’argomento fu oggetto di aspra battaglia tra maggioranza e opposizione, in particolare i consiglieri della sinistra contestavano il prezzo, a loro avviso eccessivo, di lire 400 al metro quadrato. Dopo una lunga notte di discussione il consigliere dott. Emmanuele, in accordo con gli altri suoi compagni di partito, presentò la seguente mozione: “Invitare i proprietari a ridurre il prezzo richiesto per la cessione dell’area occorrente per l’erigendo edificio scolastico a lire 200 al metro quadrato o procedere alla espropriazione per pubblica utilità”.
Il notaio si era convinto che era urgente andare a leggere questo benedetto verbale e qualora i suoi sospetti si fossero rivelati fondati, avrebbe creato il finimondo seduta stante.
Il segretario comunale sig. Branciforte Corrado era un uomo sulla quarantina, che durante la seconda guerra mondiale aveva preso parte alla disastrosa guerra d’Africa con il grado di sottotenente. Quando in terra d’Africa le sorti della guerra erano ormai compromesse, l’intero battaglione di cui faceva parte fu trasferito sul fronte greco. Lì partecipò ad alcune scaramucce di poco conto imbastite contro la resistenza greca. Ormai la guerra volgeva al termine. Dopo l’otto settembre, con mezzi di fortuna, rientrò in Italia e si aggregò ad un gruppo di partigiani operante in Toscana nella Valle della Sieve, con base operativa sul monte Giovi, nei pressi di Barbiana.
Il segretario aveva un aspetto fiero ed imponente, forte della consapevolezza di avere compiuto il proprio dovere fino in fondo, avendo combattuto, sempre dalla parte giusta, per il bene e l’onore della patria.
La mattina del 3 luglio iniziò per lui come sempre: caffè nel vicino bar Facondo, poi subito in ufficio. Appena entrato nella sua stanza ebbe la visione della scrivania, piena di carte in ordine sparso. Provò un senso di frustrazione nell’osservare quel spaventoso disordine e un sentimento di angoscia lo prese solo al pensiero di dover riordinare tutte quelle cartacce: vero incubo della sua esistenza.
Prima di iniziare la quotidiana battaglia, contro le carte e la burocrazia comunale, di cui era a capo, guardò se la porta della stanza dirimpetto alla sua era aperta. Così come aveva immaginato lo era: il che voleva dire che il Sindaco era già arrivato.
Senza pensarci su entrò e disse: buongiorno Pietro, se hai bisogno di me, io sono qui. Buongiorno Corrado, gli rispose il Sindaco, grazie ma non ora, magari se passi fra un po’, voglio parlarti.
Pietro il Sindaco era un brav’uomo. I suoi concittadini lo avevano soprannominato “boccuccia di rosa”, perché non diceva mai di no a nessuno e si intratteneva con chiunque sempre con il sorriso sulle labbra.
Era un uomo affabile, ma tutti sapevano, che quel sorriso così compiacente, era un espediente che il furbacchione usava per ammaliare l’interlocutore: nulla di più di questo. Di tutti i si pronunziati, mai nessuno se ne concretizzò: ma per la gente era sempre don Pietrino il Sindaco. Con quel suo modo di fare si rendeva simpatico a tutti, aveva, perciò, un nutrito seguito di elettori e di eletti. Era una sorta di berlusconiano ante litteram. Di certo non era un grande oratore, quando doveva tenere i comizi ricorreva ai buoni uffici di un prete, suo mezzo parente. Il quale in gran segreto preparava i discorsi, che egli con grande enfasi pronunciava dinnanzi ai propri elettori.
Per la verità il segreto non era più tanto un segreto, a causa di quella volta che il discorso gli fu consegnato scritto a mano. Il buon prete, preso da altri più importanti uffici, non era riuscito a ricopiarlo a macchina.
Pietro il Sindaco, quando ebbe recapitati dal messo comunale quei fogli scritti con una calligrafia indecifrabile, veri e propri geroglifici, andò su tutte le furie. Comunque non era più possibile rimediare: non c’era più tempo. Suo malgrado si accinse a salire sul pulpito con quei fogli pieni di scarabocchi.
Il primo foglio era assai comprensibile, e tutto andò liscio. Il secondo incominciò a divenire una specie di rompicapo. Al punto in cui egli non capì più nulla, sbottò incurante del microfono aperto e della piazza gremita dicendo: ma chi minghia scriviu ca u canonicu. Parole chiare e univoche che svelarono l’arcano e suscitarono una risata collettiva che coinvolse tutti gli astanti.
Il notaio Caputo aveva finalmente esaurito gli appuntamenti della mattinata. Guardò l’ora segnata dal bell’orologio appeso alla parete dello studio e si compiacque con se stesso: erano le undici e quarantacinque. Tutto andava come da programma.
Diede le ultime istruzioni al suo impiegato ed uscì per recarsi al palazzo municipale.
Si diresse direttamente nella stanza del Sindaco, bussò, gli fu detto: “avanti”. Quindi entrò, vide il Sindaco seduto al suo tavolo e disse: buongiorno Pietro.
Buongiorno Giovanni, gli rispose il Sindaco.
Esordì il notaio: Pietro, chiama il segretario comunale, voglio leggere la minuta della deliberazione riguardante l’esproprio.
Giovanni ma lascia perdere, ribatté il Sindaco.
Pietro, insisto è un mio diritto, voglio vedere quella minuta, disse il notaio adirato.
Il povero Pietro capì che non c’era modo di dissuaderlo. Chiamò l’usciere e gli ordinò da far venire il segretario comunale, con la minuta della delibera numero 125.
L’usciere si diresse nella stanza del segretario, il quale era affaccendato, nel tentativo di disboscare quella selva di carte che ancora aveva sulla scrivania.
L’usciere appena entrato disse: signor segretario, la vuole il Sindaco, deve portare con sé la minuta della delibera numero 125.
Sbottò il segretario tra sé e sé: mancava anche questa scocciatura, come se non avessi da fare.
Suo malgrado, come da ordine ricevuto, prese la minuta e si diresse verso la stanza del Sindaco, ivi entrò e trovò i due uomini che parlavano animatamente.
Corrado, disse Pietro il Sindaco, fai vedere questa benedetta minuta al notaio.
Questi appena finì di leggere, contestò duramente il segretario comunale perché a suo avviso la votazione della mozione del consigliere Emanuele non era mai avvenuta, mentre lì risultava scritto il contrario.
Di rimando, e senza pensarci su il segretario disse: quando entrano in giuoco interessi privati e personali, si ricorre all’espediente di impugnare la veridicità dei verbali.
A sentire quelle parole il notaio perse il lume della ragione, l’adrenalina gli sobbalzò di colpo diffondendosi con veemenze in tutto il corpo. Non capì più nulla, nella sua testa vi erano solo quelle parole lesive del suo onore. Al che scattò in piedi e repentinamente disse, rivolgendosi al segretario comunale: ritiri immediatamente quello che ha detto, è un’offesa al mio onore, alla mia integrità morale.
Non ho nulla da ritirare, perché non ho fatto il suo nome e pertanto non ho offeso nessuno, replicò il segretario.
Ritiri immediatamente l’offesa, disse stizzito il notaio.
Alla seconda intimazione rimasta senza risposta, il notaio capì, che il suo denigratore non aveva intenzione di scusarsi.
A quel punto il notaio aveva raggiunto il massimo della sopportazione, istintivamente e con fare repentino si lanciò verso il segretario comunale, che restò, sulle prime, sorpreso da una simile reazione.
Il notaio gli si avventò contro e, con tutto il suo essere, mollò due ceffoni al malcapitato.
Pietro il Sindaco e il consigliere Spartà, anch’esso presente, furono presi alla sprovvista dal repentino evolversi degli eventi. Ma vista la differenza di stazza tra i due si avventarono sul segretario comunale e lo trattennero onde evitare una sua reazione che avrebbe fatto veramente male al notaio. E mentre il segretario cercava di divincolarsi dalla presa per rendere pan per focaccia al suo aggressore, le carte poste sul tavolo volavano in aria, come aquiloni lanciati al vento. Pietro il Sindaco supplicava i due di calmarsi, mentre altri, richiamati dal marasma provocato, accorrevano cercando di mettere pace.
Alla fine tra strepitii, spintoni, invettive e chi più ne ha più ne metta, il notaio fu condotto in un’altra stanza, mentre il segretario restò ove si trovava.
Mamma mia, diceva il povero Sindaco, rivolto al segretario comunale, ma che avete combinato e chi me lo doveva dire che oggi avrei trascorso
questo brutto quarto d’ora.
E mentre continuava nella lamentazione, cercava di raccogliere le carte sparse sul pavimento.
Il fatto si era ormai consumato e il povero Pietro, ripresosi dallo spavento, da buon politico, incominciava ad immaginare le conseguenze che ne sarebbero venute. Conseguenze politiche si capisce.
Ritenne, che non appena i due si fossero calmati, egli avrebbe messo in essere tutto il suo prestigio, il suo potere e la sua capacità di mediazione per riportare la pace tra i litiganti.
Ragionava tra sé medesimo, che se per questo stupido incidente avesse perso un segretario così capace come il Branciforte, si sarebbe ritrovato nella impossibilità di sostituirlo. Di contro non voleva perdere un consigliere comunale e un vero amico, come in effetti era il notaio.
Lasciò passare il resto della mattinata, tutti si ritirarono per il pranzo e nel pomeriggio avrebbe cercato di ricucire i rapporti tra i due.
Per primo interpellò il segretario Branciforte, il quale risolutamente disse che mai e poi mai avrebbe voluto riconciliarsi con chi gli aveva recato si grave offesa. Il buon Pietro, cercò di argomentare il suo proposito come meglio poteva, sostenendo che sono cose che capitano, che bisognava considerare di essere di fronte ad una persona di una certa età. Insomma il Sindaco ci mise tutto il suo savoir faire, alla fine convinse il segretario a stringere la mano al notaio e a dimenticare l’accaduto.
Ma con il notaio non riuscì in eguale impresa. Questi sosteneva di essere stato leso nell’onore e che la sua reazione non era stata per nulla sproporzionata. Nonostante i più disparati tentativi di don Pietrino, il notaio fu irremovibile. Comunque alla fine aprì uno spiraglio e disse: Pietro l’unica via d’uscita è un giurì d’onore. Un giurì d’onore? disse Pietro e va bene se proprio non se ne può fare a meno. Comunicò la notizia al segretario, il quale rispose che era ben lieto di sottoporsi al giudizio, perché egli non aveva nulla da temere.
Il buon Pietro mise insieme le persone più autorevoli della città, e così l’organo giudicante fu formato.
Alle ore 18.30, nella sala della giunta municipale del comune, inizio il giudizio, per il quale alla fine fu redatto il seguente verbale: L’anno 1948, addì 3 del mese di luglio, alle ore 18.30, in un locale del Municipio di Randazzo, si sono riuniti signori Catania avv. Nicolò, Grasso ing. Francesco, Cocchiara cav. Carmelo, Viglianisi cav. Pietro, rappresentanti rispettivamente dei signori Branciforte Corrado segretario comunale e Caputo cav. Notaio Giovanni, ed hanno designato a presidente il giurì d’onore il barone grand’ufficiale Rodolfo Viglianisi.
Si premette che stamane nel gabinetto del Sindaco avveniva un increscioso incidente finito con vie di fatto fra i contendenti.
Dalle prime sommarie informazioni parrebbe che l’incidente sia stato provocato da una interpretazione divergente della minuta di deliberazione n. 125, riguardante l’acquisto dell’area per il costruendo edificio scolastico.
Il giurì, sentite le deposizioni e testimonianze dei presenti, interroga nella sua qualità di Sindaco, il cav. Viglianisi Pietro, che letto attentamente il verbale incriminato, non è stato in condizione di stabilire con certezza se la votazione, di cui parla il verbale, riguardante la mozione presentata dal consigliere Emmanuele, sia stata votata con tutte le modalità tradizionali ed integralmente.
Ciò posto il giurì ritiene interrogare i due primi. Viene chiamato così il segretario comunale signor Branciforte Corrado il quale dichiara: “il consigliere notaio Caputo avendo preso visione della minuta della predetta deliberazione contestò che la votazione dell’ordine del giorno del consigliere comunale Emmanuele non era mai avvenuta, al ché io risposi – che quando entrano in giuoco interessi privati e personali si ricorre all’espediente di impugnare la veridicità dei verbali-.
E’ per me chiaro, che non intendevo con quanto detto, assolutamente riferirmi personalmente al consigliere Caputo, il quale di rimando mi invitò a ritirare l’offesa. Ribattei che non avevo nulla da ritirare perché non avevo fatto il suo nome. Il Caputo replicò – ritiri immediatamente l’offesa – e subito dopo avvennero le vie di fatto. Da parte mia non ho reagito perché trattenuto dal consigliere Spartà e dal Sindaco.
Preciso inoltre, che non esiste nessuna ruggine tra me e il consigliere Caputo.”
A questo punto, data l’ora tarda, si rinvia l’interrogatorio del notaio Giovanni Caputo alle ore 11.45 di domani.
Il notaio uscì dalla stanza, congedatosi con uno stizzito buonasera, rivolto a tutti i presenti.
Varcò la soglia di casa arrabbiato più che mai. Non proferì parola con nessuno dei famigliari, e visibilmente contrariato si diresse verso la tavola apparecchiata. Cenò in silenzio, senza che alcuno dei commensali osasse minimamente smorzare quel clima pesante.
La sua mente era talmente occupata a ripercorrere gli incresciosi fatti che lo avevano visto protagonista, al punto da saltare le immancabili abitudini del dopo cena. Preferì andare subito a letto.
Inutile dire che passò una notata insonne, girandosi e rigirandosi nel letto. Il pensiero fisso era sempre quello. Contava le ore scandite dall’orologio della vicina chiesa. Il tempo non passava mai. Una notte interminabile.
Fece finalmente giorno. Il notaio si alzò e ritenne che nonostante tutto la notte aveva portato consiglio. Adesso aveva chiaro in testa l’atteggiamento da tenere dinanzi al giurì d’onore.
Alle undici e mezza si presentò al Municipio. Prese posto in una stanza in attesa di essere chiamato per l’interrogatorio.
Il presidente del giurì d’onore barone grand’ufficiale Rodolfo Vaglianisi, arrivò subito dopo il notaio. Verificò immediatamente che fossero presenti tutti gli altri componenti e fece chiamare il notaio.
L’impiegato chiamato a svolgere le funzioni di segretario dell’organo giudicante, riprese a scrivere il verbale lasciato in sospeso la sera prima.
Oggi 4 luglio 1948, alle ore 11.45 si riapre il presente verbale e si procede all’interrogatorio del notaio Caputo cav. Giovanni, consigliere comunale.
“Nessuna ruggine esisteva tra me ed il signor segretario comunale.
Escludo categoricamente che la mozione del consigliere Emmanuele sia stata sottoposta ad una regolare votazione.
L’alterco è stato originato dal fatto che io negavo l’avvenuta votazione. Alche il segretario rispose – quando entrano in gioco interessi privati si viene col dire che i verbali di deliberazione non corrispondono a verità-. Ho trovato naturale richiamare all’ordine il segretario, dicendo che nessuno veniva per difendere interessi privati, ma quelli del comune. La discussione, malgrado il mio richiamo continuò ad inasprirsi al punto, che io in vista del tono provocatorio tenuto dal segretario, dovetti fargli presente recisamente che quello non era contegno consentito ad un segretario nei confronti di un consigliere comunale, che esercitava le funzioni di critica. Avendo nuovamente replicato con la solita frase degli interessi privati, io non sono stato, disgraziatamente, in condizioni di padroneggiarmi, perché ho acquistato la certezza che la frase era rivolta espressamente alla mia persona.
Allontanatosi il notaio Caputo il giurì deve rilevare:
1) E sino ad un certo punto comprensibile che il segretario comunale si trovi, qualche volta, in uno stato di disagio morale provocato dalle interferenze che da diverse parti si cerca di esercitare su di lui.
Ciò, però, non può giustificare l’atteggiamento poco riguardoso nei confronti di un consigliere comunale.
2) Meno ancora si può giustificare l’insistenza sulla frase incriminata.
La reazione del notaio Caputo, benché sia stata provocata dalla convinzione di essere stato leso nella sua onorabilità, ha ciò nonostante nettamente esorbitato dai limiti ragionevoli.
Considerato che risulta dalle dichiarazioni stesse del segretario comunale, che non intendeva minimamente alludere alla persona del Caputo usando la frase “interessi privati”. Dichiarano i rappresentanti del notaio Caputo che il loro primo deplora di essere stato trascinato al di la di quanto dovesse da un apprezzamento che oggi si è rivelato fallace. Dichiarano, altresì, che il loro primo riconoscendo da gentiluomo la eccessività del suo gesto esprime per loro mezzo il suo più vivo rincrescimento per l’accaduto e presenta le sue più ampie scuse. Aggiungono ancora i rappresentanti del notaio Caputo che nessuna obbiezione egli ha inteso muovere alla rettitudine del segretario sig. Branciforte
Il giurì prenda atto di tale cavalleresca dichiarazione e prega i rappresentanti del segretario Branciforte di volerne prendere atto. I rappresentanti del segretario Branciforte dichiarano, a seguito di quanto sopra, di ritenere chiuso l’incidente, confermando che il loro primo non intendeva, per come ha egli stesso dichiarato, offendere la persona del notaio Caputo, verso il quale nutre stima e deferenza.
Il giurì, udite le superiori dichiarazioni delibera di ritenere chiuso l’incidente ed invita i due primi a stringersi la mano.
Letto, sottoscritto e confermato alle ore 14 di oggi.
I due contendenti furono introdotti nella stanza del Sindaco. Il notaio disse:
– senza rancore.
– senza rancore, rispose il segretario.
Si strinsero la mano ed ogn’uno per la sua strada.
Pietro il Sindaco era contento, aveva disinnescato una grossa grana. Si compiaceva tra se medesimo per la sua abilità, la sua capacità diplomatica, per le grandi dotti di mediatore che possedeva e che indiscutibilmente si riconosceva. Insomma ancora una volta si stava autocelebrando. Del resto ne aveva ben donde, perché ogni qual volta le sue abilità venivano messe alla prova, il che avveniva spesso, la spuntava sempre.
Nonostante la pace, egli conosceva bene il notaio e sapeva che in qualsiasi momento poteva essere dissotterrata l’ascia di guerra. Pensò bene, allora di convocare un consiglio comunale straordinario e urgente, onde procedere alla conferma ufficiale della votazione contestata.
Il giorno 5 luglio 1948, alle ore 17 si riunì il consiglio comunale, mancava il notaio Caputo. Dopo la dichiarazione di astensione al voto da parte di coloro che aveva fatto parte del giurì d’onore, il consiglio votò, deliberando che la mozione del consigliere Emmanuele era stata votata nella seduta precedente.
E il notaio? Solo allora si rese conto dell’astuzia con cui Pietro il Sindaco aveva trattato la questione. Dando ragione a tutti, aveva messo lui nel sacco. Il deliberato del consiglio comunale gli dava del bugiardo o peggio ancora del rimbambito: mai si sarebbe aspettato un atto del genere.
Prese carta e penna e scrisse al Prefetto chiedendo l’annullamento delle due ultime delibere del consiglio comunale. Ma il dado era ormai tratto, e a poco servirono le rimostranze fatte a Pietro il Sindaco. Il quale con grande abilità riuscì a districarsi, quasi a sgusciare, come un anguilla, portando tutta una serie di argomentazioni politiche e giuridiche. Al notaio non restò che prenderne atto, rimuginando nella sua mente che prima o poi ci sarebbe stata l’occasione per ripagare tutti i congiurati con la stessa moneta. A buon rendere, pensò e si diresse verso casa.