Anche se in ritardo, con animo profondamente commosso Vi comunico la morte del compianto e caro confratelloSac. Pasquale De Luca ritornato alla casa del Padre nel pomeriggio di un anno fa, il 19 luglio del ’92.

Chiuse gli occhi serenamente circondato dall’affetto dei confratelli, senza avvertire, probabilmente né lui né i presenti, la gravità del disturbo cerebrale.

Terminò la sua giornata terrena in silenzio, in punta di piedi, senza recare “disturbo” a nessuno così come più volte, mi confidava, aveva pregato il Signore che gliene concedesse la grazia.

Pasquale De Luca nacque a Randazzo, ridente cittadina medievale a ridosso dell’Etna, i126 aprile 1911, ultimo di nove figli. Non vide e non conobbe il padre, orto prima che egli nascesse. A motivo di ciò la madre, Maria Catena Ferro, gli pose il nome del padre perché se ne conservasse in famiglia viva la memoria.

La povertà bussò in quella casa. La madre, donna di forte fede e di senso pratico, prese le redini della famiglia; crebbe ed educò la nidiata di figli col mestiere di sarta.

Scelse per il suo Pasquale il collegio rinomato della città, il S. Basilio, ove il piccolo frequentò le classi elementari.

Il clima di famiglia, la squisita carità e benevolenza incontrata nelle carismatiche figure di D. Cavina, D. Amistani, D. Barbero, che attinsero lo spirito salesiano direttamente da D. Bosco, lo orientarono ancora fanciullo alla vita salesiana.

Iter formativo

Compì il ginnasio inferiore a Barcellona e quello superiore a S. Gregorio di Catania.

Entrò nel noviziato il 14 novembre 1927 ed emise la prima professione religiosa l’anno successivo, il 15 novembre 1928.

Vi rimase altri due anni per gli studi di filosofia. Svolse il triennio pratico, dal ’31 al ’34, a Trapani, Catania, S. Gregorio.

Poiché rivela buone capacità intellettive, forte interiorità e sensibilità musicale, il Superiori gli fanno frequentare i corsi di formazione teologica della Gregoriana a Roma coronandoli con l’ordinazione sacerdotale in Acireale il 23luglio 1939 per le mani del Vescovo Mons. Salvatore Russo.

Il Docente

Ancor prima del sacerdozio e dei normali titoli accademici il giovane De Luca viene posto sulla cattedra avvertendo in lui le non comuni qualità di maestro di vita e di scienza.

Di intelligenza acuta, memoria tenace, battuta pronta e perspicace, brillante capacità espositiva e sensibilità non comune, egli filtra il sapere teorico attraverso lo spettro variegato della vita e matura una conoscenza delle discipline profonda nei contenuti, sicura nella esposizione, riccamente umana e viva nella forma che sarà sempre sostenuta e calda.

Sono queste le prerogative che l’hanno fatto apprezzare come insegnante acuto, come dialettico, convincente.

Le tappe della missione salesiana

Per un decennio, da ’43 al ’53, viene destinato a Palermo, Sampolo e Villa Ranchibile in qualità di Consigliere e insegnante di lettere. In pari tempo frequenta i corsi accademici dell’università conseguendo la laurea in lettere classiche e l’abilitazione, conciliando non senza sacrifici l’impegno di docente e di studente.

In questi stessi anni completa la sua preparazione musicale frequentando l’Accademia “S. Cecilia” di Roma dove consegue il diploma di musica e pianoforte per il quale strumento nutre una particolare passione che si manifesta nello studio serio, aiutato da una facile lettura dello spartito e dalla personale capacità interpretativa.

Al pianoforte egli effondeva il suo lirismo, come nella poesia, e liberava la sua anima dalle inquietudini del giorno sublimando sofferenza e dolore. Declina con suo profondo rincrescimento l’invito dei Superiori di seguire corsi di perfezionamento all’estero, conscio che la vista, sempre assai debole non l’avrebbe accompagnato. Tuttavia non abbandonerà mai la tastiera per esercitarsi e per diletto.

Nel 56, a 45 anni, viene chiamato a dirigere lo studentato filosofico e il noviziato di S. Gregorio fino a165.

Centinaia di giovani confratelli troveranno in Lui un padre affettuoso, attento ai bisogni di un’età in crescita, dalla tempra forte e dai principi fermi.

Nella direzione spirituale rivela un animo paterno, aperto che infondeva fiducia e serenità. Sempre presente e vigile interveniva per tempo e con polso autorevole a rendere l’ambiente dello studentato vario, ameno specie nelle vacanze, sempre idoneo alla riflessione, alla preghiera, allo studio.

Dal ’65 al ’71 viene destinato come Direttore all’Istituto Ranchibile di Palermo. Durante il mandato, nel ’69 viene assalito da un male oscuro al cervello. Ricoverato e operato alla Filicuzza, vi rimane per circa quattro mesi affrontando con spirito di fede e forza d’animo un vero calvario di dolore e di sofferenza continua. Per ulteriori interventi viene ricoverato all’Istituto neurologico Besta di Milano per altri lunghi interminabili mesi, nei quali si aggiunge ancora la solitudine forzata che egli sentirà pesantemente, nonostante che i carissimi confratelli di Milano lo assistessero amorevolmente. Ma gli’ mancavano i giovani, i suoi giovani che amava e accudiva come padre.

Quando vi ritornerà riprende le normali attività.

L’esperienza del dolore segnerà in lui un solco profondo che lo accompagnerà per gli anni venturi, fino alla morte.

Dal ’71 al ’77 passa a dirigere l’opera di Sampolo.

Sempre pieno di solerzia e di volontà, e per ritemprare il fisico provato, i Superiori pensano di inviarlo nella natia Randazzo affidandogli le sorti del vetusto e glorioso Collegio S. Basilio prima opera salesiana in Sicilia fondata, ancora vivente D. Bosco, nel lontano 1879. Lo dirige per un sessennio e poi come incaricato dell’Oratorio vi rimane dall’83 fino alla morte.

Gli ultimi quindici anni rivelarono il suo profondo attaccamento a D. Bosco, alla Chiesa che amò teneramente prestando servizio come parroco a Montelaguardia, frazione di Randazzo, distante 4 Km. Curò con particolare dedizione l’associazione degli Ex Allievi che riconobbero in lui una guida spirituale, sicura, l’uomo dal parlare franco, il salesiano convinto e generoso.

La Spiritualità

Come pastore D. De Luca fu un sacerdote zelante e convinto. Alimentava la fede nel colloquio interiore, confidenziale con il Cristo, specie quando lo contemplava con le braccia stese sulla croce obbediente al Padre. Era allora il momento più tenero, quando il suo pregare diventava, senza presunzione, confronto e misura anche della sua sofferenza. Attraverso la Croce filtrava e interpretava le vicende umane, le presentava al Padre in tono di intercessione, sempre in spirito di obbedienza al mistero di Dio, dinanzi a cui era solito arrestarsi non senza chiedersi enigmaticamente “Ma perché, Signore, perché hai permesso questo?”. Di ogni vicenda chiedeva alla luce della fede il senso recondito, partecipando con sofferenza al mistero del dolore universale. Per questa sua sensibilità accesa intendeva molto bene il dolore che ha investito la vita di artisti, musici o poeti, e ne interpretava le vibrazioni quando al piano eseguiva i pezzi preferiti e ne citava i versi.

Anche il volto, scavato da rughe profonde e da pieghe ai lati del mento, accusava in lui l’uomo della sofferenza dovuta a sensibilità e partecipazione. E tuttavia gli occhi vivaci e neri, lo sguardo penetrante e buono trasmettevano, più che le parole, condivisione e abbandono sereno in Dio, a cui nulla sfugge. Con questa ricchezza entrava nelle case, negli uffici, visitava gli amici e confortava le famiglie offrendo solidarietà e quella parola ricca di fede che illuminava e dava pace interiore.

Scarno, semplice, immediato, senza retorica e senza servilismi chiedeva e otteneva non per sé ma per Don Bosco, per i giovani, suscitando ovunque a prima vista simpatia, ammirazione e infine confidenza.

Nelle conferenze, nei discorsi ufficiali e nelle omelie, che stendeva per iscritto con dotta puntualizzazione, traspariva la sua anima accesa di fede e di amore. I pensieri vibravano di autenticità, senza nulla concedere al convenzionalismo, al rito o alla prassi. Ne veniva fuori sempre la sua anima viva col suo modo autentico, che scioglieva le problematiche nell’amplesso della fede.

Spigolando…

Stralciamo dai suoi scritti alcuni brani densi di contenuto e significato del suo travaglio interiore.

Non passi giorno senza che il compimento di un’opera buona e non venga notte senza che la coscienza giudichi e rettifichi il nostro operare.

Il timore del giudizio di Dio al momento della morte è sempre presente e pieno di mistero, esso ci obbliga a una grande umiltà e ci fa invocare la misericordia del Signore e l’aiuto della preghiera dei buoni.

La parola e la vita di Cristo sono esigenti, impegnative. Impongono la rinunzia a tutto ciò che è provvisorio ed effimero. Richiedono il sacrificio, richiedono una consapevolezza della gerarchia dei valori.

Io penso che la virtù più bella, più umana e cristiana e più comunitaria sia quella del saper accettare le possibilità di ogni confratello, di aiutarlo nei suoi limiti, incoraggiarlo sempre, non chiedere più di quanto sappia dare.

Non chiedere le ragioni misteriose del nostro dolore. La fede però può risolvere l’oscuro enigma del dolore, mostrando il possibile segreto valore di redenzione e togliendo ad esso il peggiore dei mali che lo accompagnano: il senso dell’inutilità, la disperazione. V’è di più: Cristo non mostra soltanto la dignità del dolore, Cristo lancia una vocazione al dolore. “Io sono lieto, scriveva Paolo ai Colossesi, delle sofferenze che sopporto per voi”.

Il sofferente non è più inerte e di peso negativo, è un elemento attivo, è uno come Cristo. E poi c’è una promessa, una meta: noi non andiamo verso la morte, le tenebre, il vuoto, il nulla, ma andiamo verso la vita, la luce, la gioia, verso Dio.

La passione di Gesù realizza la giustizia e la misericordia, l’espiazione e il riscatto, la morte e la vita. Dolore e gioia non sono più irriducibili. La passione di Cristo è in noi ogni volta che la prova entra nella nostra vita in tutte le occasioni gravi o insignificanti e noi l’accettiamo… Non sono la penitenza, la mortificazione, dunque, una faccenda lugubre. Nulla è così falso come l’idea che la quaresima sia un tempo triste. Certo è un periodo di sforzo serio, forse anche di cura dolorosa, ma esso tende a ben altro, tende soprattutto a questo: che il nostro spirito dimori presso Dio che è luce, gioia, amore.

Io voglio sperare che al termine di quest’anno (1980) D. Bosco dal cielo possa dire ancora a noi, a ciascuno di noi, quello che ha detto il 6 gennaio 1880: di essere cioè contenti di noi.

Questo implica un nostro particolare impegno. Impegno al sacrificio, che è l’unica verifica della vera pietà e del vero amore di Dio.: sacrificio nella levata, sacrificio nella partecipazione puntuale alle pratiche della comunità, sacrificio nell’assistenza quotidiana dei nostri giovani, sacrificio nella conversazione paziente e fraterna con ciascuno di loro, che è verifica per loro che noi li amiamo così come voleva D. Bosco, sacrificio della rinuncia a tutti i privilegi dentro cui siamo tentati di chiuderci, sacrificio della partecipazione attiva a tutte le iniziative che ci vengono suggerite dall’alto e dal basso, sacrificio nella scuola in cui la cultura non deve essere fine a se stessa ma sia costituita e proposta come mediazione della nostra fede, in modo da formare delle autentiche coscienze cattoliche.

Finché pensiamo di poter vivere senza patimenti, senza pene e senza croci, non abbiamo ancora incominciato ad essere neppure cristiani. La passione è il più profondo ed esatto insegnamento di Gesù ed è insieme la più profonda sua rivelazione.

La passione di Cristo ci unisce ad una riflessione realistica sulla precarietà della nostra condizione umana votata allo scacco della morte. Non c’è nulla di definitivo e di stabile quaggiù; il tempo fugge inesorabile e come un fiume vorticoso e veloce sospinge senza sosta noi e le nostre cose verso la foce misteriosa della morte: la cosa più paurosa che c’è sulla terra: sentirsi male in tutto il corpo, non trovare sollievo un istante per giorni e giorni, vedere il mondo scomparire, non sentire più nulla: oh! e terribile.

L’umanità ha tentato in tutti i modi possibili di dimenticare, di minimizzare la morte sforzandosi di privarla di quelle dimensioni e risonanze che ne fanno un evento decisivo della sua esistenza.

Questa vita di oggi è una vigilia, è una prova seria e forte. Il tempo è prezioso e breve; bisogna quindi dare al tempo l’impegno migliore.

Carissimi, chiudo questi brevi cenni sulla personalità del nostro Don De Luca, sottolineando il suo grande amore per Don Bosco nella sua terra.

Per il centenario della morte del nostro Padre ha voluto che anche Randazzo innalzasse un monumento al Santo dei giovani e lo eresse in una piazza centrale, a fronte dell’Opera Salesiana coinvolgendo Autorità, Ex Allievi, Cooperatori dell’Opera Salesiana, ma soprattutto la gente, il popolo che amò con spirito missionario.

Fu l’ultima sua opera, l’ultimo gesto compiuto per consegnare a ciascuno di noi la fiaccola della fedeltà a Don Bosco, alla Chiesa.

Riconoscenti a Dio per averci dato un Salesiano

alla tempra di Don De Luca siamo larghi di suffragi, perché il Signore gli concedi subito quel premio che si è meritato; ed a quest’opera una forte ripresa nell’operare sempre per il bene dei giovani.

Affezionatissimo in Cristo

Sac. Rodolfo Scambelluri

Direttore e comunità

Date del necrologio:

Sac. Pasquale De Luca

nato a Randazzo il 26 aprile 1911

Professione Religiosa San Gregorio (CT) il 10 settembre 1931

Ordinato Sacerdote in Acireale (CT) il 23 luglio 1939 Morto a Randazzo (CT) il 19 luglio 1992 ad 81 anni di età e 62 di Professione Religiosa.